Attualità da questa area

Attualità da questa area

Convegno e Assemblea dei soci della società antroposofica in Svizzera

Che cosa può significare oggi un nuovo inizio, questa la domanda che ci poniamo. La risposta potrà trasformare la Società Antroposofica in un bacino nel quale si raccolgano e si sviluppino insospettati processi d'avvenire, tra gli impulsi spirituali e le attività umane.

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Una classe di Trento all'International Students' Conference 24

Il resoconto e le impressioni di una studentessa dell'XI classe della Scuola Rudolf Steiner di Trento, dopo aver partecipato dal 10 al 14 aprile all'International Students' Conference 24 a Dornach, il più grande convegno organizzato dalla sezione dei Giovani negli ultimi 5 anni.

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L'incontro delle polarità dipende da noi

Il vivere insieme diventa difficile: così tanto il carattere antisociale dell'individualismo che caratterizza le nostre società prende il sopravvento e ci impedisce di incontrarci. La molteplicità dei punti di vista porta a progetti di vita di tutti i tipi, che spesso si scontrano tra loro.

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I nuovi direttori dell'Archivio Rudolf Steiner

David Marc Hoffmann dirige l'Archivio Rudolf Steiner dal 2012. Il suo pensionamento è previsto per marzo 2025. Dal mese successivo la direzione verrà assunta collegialmente dall'insegnante Waldorf e slavista Dr. Angelilka Schmitt e dall'economista e filosofo Philip Kovce.

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La fondazione Edith Marion

Il 2 maggio 2024 segna il centenario dalla morte della scultrice Edith Maryon. La fondazione omonima le dedica un programma.

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Perché abbiamo bisogno di una società antroposofica

Non si tratta di diventare membri di una società come le altre: piuttosto, portando con sé la propria realtà umana e cosmica, di integrarsi ad un nuovo edificio sociale, partecipandovi e fondandolo ogni giorno da capo.

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Il Convegno di Natale dal 1923 al 2023

Nell'intervista sul Convegno di Natale del 2023 chiediamo a Clara Steinemann, tra l'altro, se l'Antroposofia sia una scuola esoterica, un discorso filosofico sull'essere umano o qualcos'altro ancora.

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Una classe di Trento all'International Students' Conference 24

È difficile riassumere in parole su un foglio di carta un’esperienza unica e intensa come quella che abbiamo vissuto come partecipanti all’ISC24. Sembra ancora presto per riordinare i pensieri e le impressioni al riguardo; i colori e le immagini sono troppo vividi, troppo presenti per essere spiegati e raccontati a qualcuno che non li ha vissuti. Eppure credo che ciò vada comunque fatto, prima che quelle sensazioni pian piano sbiadiscano in ricordi, mentre ognuno di noi torna alla normalità.

L’ISC è una conferenza per studenti dall'età compresa fra i 16 e i 21 anni provenienti dalle scuole superiori Waldorf di tutto il mondo. Essa si svolge al Goetheanum (Dornach/CH) ogni due anni a partire dal 2015 (nel 2023 fu rimandata), grazie alla collaborazione tra la Youth Section del Goetheanum e WaldorfSV (WaldorfSchüler*innenVertretung, con sede a Stoccarda). Ogni volta il titolo è differente: quest’anno il tema centrale era il cuore, assieme alla pace, al senso di comunità, di speranza e azione.

Ci tengo a cominciare dall’inizio, dalle prime sensazioni, dal primo momento comune, per cercare di trasmettere almeno in parte quello che è stato.

Era il primo giorno, la prima volta nella sala grande del Goetheanum: seduti uno accanto all’altro nelle poltrone sotto al soffitto dipinto, racchiusi dalle colonne e illuminate dalla luce colorata che filtrava dalle finestre, l’aria echeggiava delle nostre aspettative e curiosità.

Poi: “The roots of my heart go deep underground and entwine with the roots of your heart” – è con queste parole che si è aperta l’ISC di quest’anno, tenutasi dal 10 al 14 aprile 2024. Parole cantate, che noi 700 ragazzi provenienti da più di trenta paesi diversi (Argentina, Australia, Belgio, Canada, Svizzera, Cile, Cina, Germania, Spagna, Regno Unito, Italia, Giappone, Corea del Sud, Messico, Olanda, Filippine, Polonia, Slovenia, Turchia, Taiwan, Stati Uniti, Sudafrica, Moldavia, Mali, Lituania, Danimarca, Russia, Nuova Zelanda, Repubblica Ceca, Venezuela, Georgia) abbiamo ripetuto tutti assieme, nonostante non le conoscessimo ancora, nonostante non ci conoscessimo ancora. Il breve testo di quella canzone, riassume in modo poetico ed efficace quello che era il tema della conferenza che ci ha accompagnati durante quei 4 giorni: Taking Heart. Finding our way together.

Cosa può in fondo unire così tanti ragazzi, se non le domande su come possiamo entrare in relazione con gli altri, su cosa ci accomuna nonostante le differenze, su come possiamo trovare una via insieme adesso e per il futuro, per la pace e per la comunità?

Ogni giorno era dedicato ad un tema diverso, sempre però connesso a quelli elencati sopra: il primo era il giorno degli Incontri, il secondo quello della Sostanza, il terzo il giorno di Preparazione, il quarto di Celebrazione; l’ultimo il giorno dell’Addio: tutti accompagnati da domande legate al tema in questione.
La ricerca di risposte a questo tipo di domande veniva stimolata dalle conferenze che si tenevano ogni giorno nel teatro, attraverso le testimonianze di Angaangaq Angakkorsuaq, sciamano, guaritore, narratore di storie dalla Groenlandia (che purtroppo non è potuto esserci fisicamente, ma ha ugualmente condiviso alcuni dei suoi pensieri tramite un video), Brigid LeFevre, sostenitrice ed esperta dell’agricoltura biodinamica di origini irlandesi, che ha ne studiato l’utilità per la comunità, Kelley Buhles, antropologa statunitense che ha approfondito la relazione tra l’uomo, la società e l’economia, partecipando allo sviluppo di sistemi economici alternativi a quello in cui viviamo adesso, e Yecu Barnech, sacerdote della Comunità dei Cristiani di origini argentine.

Oltre a parlare del proprio campo di studi, ognuno dei relatori raccontava anche del proprio percorso di vita, della propria evoluzione, di come avevano vissuto loro il cuore, la pace e la relazione con e tra le persone, mostrando che spesso non è il percorso lineare a portarci a diventare ciò che siamo, come invece alla nostra età tendiamo a immaginare, ma un insieme di cambiamenti, incontri, scelte continue che ci permettono di crescere anche quando non sappiamo esattamente cosa vogliamo diventare. Interessanti in questo senso sono state anche le narrazioni delle esperienze di vita dei Fellow Travellers, membri dello Staff organizzativo, referenti per i workshop o invitati, che narravano come la vita li avesse portati a parlare su quel palco quel giorno.

L’altro grande tema della conferenza era quello che il pomeriggio di sabato 13 aprile ci ha portati a sfilare per le strade di Basilea muniti di bandiere, enormi marionette, allegria e voglia di condividere, per radunarci tutti nella piazza del duomo dove abbiamo narrato attraverso coreografie, canti, parole e movimento la storia del Peacemaker, il portatore di pace, e dei suoi compagni, che circa 700 anni fa fondarono una comunità pacifica democratica, riunendo cinque popolazioni nemiche del Nord America sotto un’unica nazione, la Haudenosaunee [nella storiografia inglese, The Five Nations, in quella francese, Iroquois, ndr]. La storia del peacemaker ci è stata raccontata già la prima sera della conferenza da Nathaniel Williams, direttore della Youth Section al Goetheanum, e il tema della pace ci ha accompagnati per tutta la sua durata: come si fa a portare pace? Come si può costruire una società pacifica, sotto la quale tutti possano sentirsi riuniti? C’è un modo per raggiungere uno stato di pace interiore? Si può davvero raggiungere la pace con la pace?
Sono domande ancora aperte, ma narrare quella storia nella piazza principale di Basilea a tutte le persone che volevano ascoltarla e a noi stessi è stato quasi la prova che convivere in pace – nonostante idee, tradizioni e passati diversi – è non solo possibile, ma addirittura naturale, spontaneo, se si hanno dei valori e delle intenzioni comuni.

Oltre alle conferenze e alle narrazioni, i 25 diversi workshop permettevano di approfondire una tematica o un’attività di interesse personale: la meditazione, il body painting, la composizione musicale, l’improvvisazione teatrale, oppure tematiche come i conflitti internazionali; in ogni caso erano un’occasione in più per conoscere altre persone,  relazionarsi con i compagni di workshop attraverso la condivisione di esperienze, idee e opinioni.

Nonostante l’organizzazione fosse molto precisa e puntuale e l’andamento della giornata strettamente regolato, sempre ricco di attività, c’era una libertà quasi assoluta nei momenti di pausa, che lasciava spazio all’iniziativa del singolo o del gruppo. Ed era proprio nei momenti di svago che le domande che ci accompagnavano  trovavano una risposta, non solo attraverso discorsi e discussioni, ma nelle azioni e nelle relazioni. L’atmosfera di condivisione, curiosità, e rispetto che si creava era la condizione ideale affinché potessero sorgere nuove amicizie, anche semplicemente cantando insieme ad altre 25 persone, mentre si stava seduti nel prato o sul bordo della terrazza, oppure ballando, condividendo dolci tipici del proprio paese con un gruppo di perfetti sconosciuti seduto accanto al proprio. C’era nell’aria una libertà in quei momenti, una leggerezza, una semplicità e spontaneità che difficilmente si trovano in un altro posto, in un altro momento, con altre persone. La naturalezza apparentemente intrinseca di semplici gesti come scambiare due parole, o le proprie firme sui libretti del programma, metteva a proprio agio anche le persone più timide. Le differenze linguistico-culturali non erano un ostacolo, bensì uno spunto per fare amicizia.
Qualcosa ci accomunava nonostante le differenze, e forse era davvero il cuore di ognuno di noi, le cui radici avevano trovato terreno fertile intrecciandosi con quelle di altri 700 nei corridoi e nelle sale, sulle scale e terrazze, nei prati e ai tavolini del Goetheanum.

Alcuni dei momenti più iconici si sono svolti quando la sera, o di prima mattina, le classi o i gruppi partecipanti salivano sul palco per condividere con i presenti performance di euritmia, balli tipici del proprio paese, oppure canti o brevi spettacoli. Era interessante vedere emergere i diversi tratti delle culture attraverso la musica e il movimento, e l’entusiasmo dopo ognuna delle presentazioni era semplicemente sincero e condiviso da tutti.

Anche noi siamo saliti sul palco, la prima mattina di conferenze, per cantare Take me Home, un brano arrangiato per coro a 5 voci. Nonostante non sia stata una performance perfetta – un po’ per l’ansia, un po’ per la mancanza di un direttore – quello che ne rimane è un ricordo positivo, e fa sorridere vedere le immagini di noi undici mentre cantiamo, sembrando quasi dispersi su quell’enorme palco. Non avevamo mai cantato davanti a così tante persone in un teatro grande come quello del Goetheanum, eppure anche in questo caso c’era una tale naturalezza nel condividere quella canzone prima di cominciare la giornata, che le preoccupazioni, benché presenti, sfumavano.

L’ultima sera di conferenza il palco era aperto a performance di singoli, di piccoli gruppi o di alcuni workshop. Vedere tanto talento, tanta passione portata sul palco è stata una delle sensazioni più belle. Alcune delle idee per le performance erano perfino nate proprio durante i giorni precedenti, attraverso l’incontro tra ragazzi con passioni comuni, e credo che questa sia un’altra testimonianza del fatto che l’atmosfera di condivisione e appartenenza creatasi durante quei giorni faceva passare in secondo piano le paure e le difficoltà dovute alle differenze.

In questo senso mi ha colpita molto una frase che Nathaniel Williams ha detto durante il momento dei saluti l’ultimo giorno di conferenza, ovvero che sarebbe bello in futuro poter parlare non tanto di una conferenza “internazionale” degli studenti, ma piuttosto di una conferenza “planetaria”, in quanto la parola internazionale stessa implica in sé l’esistenza di nazioni diverse e quindi di confini, separazione e differenziazione.
Tante delle domande sorte in questi giorni non sono ancora giunte a risposta definitiva, e ce le siamo portate dietro assieme ai nostri bagagli e a tutte le immagini, i suoni e i ricordi di quei momenti, mentre ognuno di noi tornava a casa propria.

Ancora adesso i miei compagni di classe ed io ci scopriamo a cantare the roots of my heart, o a ripetere frasi dette o sentite durante la conferenza.
Mi piace pensare di poterci trovare tutti riuniti di nuovo all’ISC2026 per portare riposte a vecchie domande, nuovi quesiti di cui discutere, per tornare a sederci sul bordo della terrazza del Goetheanum, per poter di nuovo sentirci parte di un insieme molto più grande rispetto a quello di cui facciamo esperienza giornalmente nelle nostre scuole, per percepire di nuovo quello spirito di unione comune che abbiamo sentito sorgere durante quei quattro giorni.  

È difficile tornare alla normalità dopo un’esperienza così intensa. Chiudendo gli occhi credo che molti di noi vedono ancora il Goetheanum al tramonto, i prati di ranuncoli, le vetrate, lo skyline di Basilea in lontananza, e sentiamo un chiacchierare frenetico, il suono di una cornamusa, l’echeggiare del gong che ci avverte che è ora di rientrare.
Ovviamente non ricordiamo la figura di tutti i presenti, ma percepiamo ancora l’insieme, il volume dei corpi, delle voci quando cantavamo, la sala del teatro piena di volti, noi riuniti in massa davanti all’entrata mentre sorridevamo per la fotografia, i passi su per le scale in cemento, le bolle di sapone nell’atrio e all’aperto, le fotografie, la libertà di esserne parte. Per questo ci tenevo a ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile questa esperienza e la nostra partecipazione ad essa. Grazie anche a tutti i ragazzi presenti: non importa quanto ci conosciamo, importa che condividiamo quei momenti di cui siamo stati i protagonisti.

Quando un'esperienza si conclude è sempre bello pensare che non si tratta di una fine, ma solo di un nuovo inizio...

Take heart

Anna Christina Steffens, dell’XI classe, Scuola Rudolf Steiner Trento

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